Le Origini dei processi di tutela: le organizzazioni imprenditoriali locali e settoriali nell’Italia liberale

Valerio Torreggiani Ricercatore di storia economica, Università Roma Tre

Valerio Torreggiani

Ricercatore di storia economica, Università Roma Tre

  1. Lo studio delle origini dell’associazionismo imprenditoriale

Per un lungo periodo la storiografia non ha dedicato particolare o approfondito interesse allo studio delle origini e dei primi sviluppi dell’associazionismo imprenditoriale in Italia durante l’età liberale. Tuttavia, appare opportuno iniziare questo intervento richiamando due brevi indicazioni presenti in due importanti lavori sul tema. Indicazioni che appaiono essenziali, da un lato, per inquadrare meglio l’intera vicenda, restituendole la centralità e l’importanza storiografica che merita; dall’altro, per fornire alcune avvertenze metodologiche essenziali per approcciare la stessa materia di studio.

In questo senso, in un articolo del 1992 Marco Moneta osserva che lo sviluppo degli organismi associativi imprenditoriali, avendo a che fare con l’emergere della stessa struttura collettiva della società industriale di massa, costituisce «un argomento di sostanza, di quelli che, a guardar bene, rimandano a temi di fondo della riflessione sull’organizzazione nella società contemporanea» [1] . Un argomento, dunque, che ha bisogno di essere studiato e compreso a fondo. Contestualmente Roberto Melchionda, in un pionieristico studio del 1988 sugli albori della Firenze industriale, ci avvisa che «fare la storia delle associazioni imprenditoriali prendendo le mosse dagli anni del decollo industriale [mette] in ombra antefatti rilevanti ( … ) e ci porta a dare un’impronta enfaticamente sindacale e classista a organizzazioni che nella loro storia si sono poste anche altri compiti, oltre a quello del contrapporsi, più o meno conflittualmente, con altre organizzazioni di interessi>>[2]. Queste citazioni forniscono, come detto, due spunti di grande importanza per avvicinarsi allo studio delle origini dell’associazionismo imprenditoriale. Da un lato Moneta ci ricorda che il tema, che come detto non ha ottenuto un vasto successo tra gli storici, è invece essenziale per comprendere lo sviluppo e le caratteristiche della contemporaneità in Italia; dall’ altro, Melchionda ci mette in guardia dall’ errore di pensare il passato con le categorie del presente, spingendoci a immaginare un associazionismo imprenditoriale che nella sua storia ha svolto anche funzioni diverse da quelle oggi più note.

Osservato con queste consapevolezze, il XIX secolo rivela una realtà associativa sul fronte imprenditoriale sorprendentemente densa, ricca di esperienze che si legano a doppio filo con i cambiamenti e gli sviluppi politici, economici, sociali e culturali italiani nel periodo che va dal 1861, anno della nascita del Regno d’Italia, allo scoppio della Prima guerra mondiale. Cambiamenti profondi, che agiscono sulla conformazione sugli apparati produttivi, sull’organizzazione politica, sulle identità sociali e, dunque, sulle strutture aggregative.

  1. Le tre fasi dello sviluppo dell’associazionismo

Tale sviluppo può essere schematicamente suddiviso in tre fasi che hanno forti elementi di coerenza interna e che possono essere cronologicamente determinate. In un primo momento abbiamo una fase di accentramento e statalizzazione della rappresentanza degli interessi imprenditoriali che va dall’Unità del 1861 fino alla grande depressione economica degli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo. Se dovessimo scegliere una data simbolica per definire la conclusione di questo primo periodo forse sarebbe opportuno indicare il 1881, anno del crollo dei prezzi dei prodotti agricoli che dà il via alle grandi difficoltà sperimentate dal settore primario italiano negli anni successivi e che innesca al tempo stesso, come vedremo, profondi cambiamenti sul fronte associativo. La seconda fase è appunto una fase caratterizzata dalla crisi economica e dalla conseguente frammentazione degli interessi imprenditoriali. Questa fase va dalla depressione degli anni Ottanta fino alla fine del secolo. In questo caso se volessimo scegliere una data simbolica per far terminare questo periodo potremmo optare per il 1898, anno di nascita della prima associazione settoriale industriale con importanti caratteristiche sindacali, il Consorzio fra industriali meccanici e metallurgici di Milano. A partire dalla fine del secolo, e poi con più intensità durante l’età giolittiana, si snoda la terza e ultima fase del percorso che precede e in qualche modo prepara l’associazionismo nazionale. E’ , questa, una fase di profonda sindacalizzazione delle organizzazioni degli interessi imprenditoriali, che arriva fino allo scoppio della guerra. Il periodo è dunque dominato dalla nascita e dalla crescita di associazioni imprenditoriali la cui cifra peculiare era la solidarietà di classe definita in particolar modo nei termini di una contrapposizione con i sindacati operai e con le leghe contadine sul piano del conflitto sociale.

  1. Accentramento e statalizzazione. Dunque, come accennato, la prima è una fase di accentramento e statalizzazione della rappresentanza degli interessi imprenditoriali. Nei primi vent’ anni post-unitari è infatti lo Stato che si fa protagonista dell’allestimento di reti di organismi territoriali volti a organizzare i rappresentanti delle élite economiche locali. Nascono a tal proposito le camere di commercio (1861) e i comizi agrari (1866), entrambi con importanti precedenti nella legislazione piemontese e francese, i quali avevano un corrispettivo al centro del sistema costituito dal Consiglio d’agricoltura (1868) e dal Consiglio d’industria e commercio (1869). Tutta questa architettura rappresentativa era fortemente piegata da un’interpretazione dei rapporti tra centro e periferia basati su quella che è stata identificata come la triade consensoIcontrolloIindirizzo delle élite economiche locali. Questo approccio faceva perno sulla essenziale figura del prefetto, che doveva essere il punto di contatto tra il Ministro e gli istituti locali esercitando un potere che variava a seconda di una serie di circostanze specifiche ma che era comunque funzionale al disegno generale. Parallelamente, anche la composizione dei consigli d’industria e d’agricoltura era di esclusiva nomina ministeriale, a rinforzare così la presenza dello Stato nel campo economico locale. In questo modo, come ricorda Ernesto Ragionieri, tutta la struttura edificata per gestire la rappresentanza delle categorie economiche si integrava in una più generale strategia dello Stato unitario “tesa a controllare ogni forma di associazione autonoma, anche dei gruppi politicamente dominanti”[3], In questo contesto, non sorprende che lo sforzo organizzativo maggiore sia stato fatto in campo agrario, che era ancora ampiamente il settore maggioritario dell’ economia italiana. I comizi agrari divennero infatti gli strumenti per rappresentare e controllare le élite rurali, con compiti di informare il governo sulle condizioni economiche locali e consigliarlo circa i provvedimenti più idonei da attuare.
    Sul fronte industriale, anche se le esperienze manifatturiere erano ancora sporadiche e isolate, si stavano comunque sviluppando alcune esperienze associative. Occorre sottolineare però come queste ultime avessero un carattere profondamente diverso da quelle dei decenni successivi, con scopi soprattutto di promozione di forme di socialità e altre attività scientifiche, culturali, artistiche e di beneficienza. Vale la pena ricordare in questo senso almeno l’Associazione degli industriali di Faenza del 1864, che conserva il primato di più antica associazione industriale italiana, la Società promotrice dell’industria nazionale di Torino del 1868 e l’Associazione industriale italiana di Milano del 1867.
    Con la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, le trasformazioni dei rapporti e delle forme di produzione cominciano a porre in crisi il modello appena descritto. L’evento chiave in questo senso, che fa emergere il nuovo e diverso scenario associativo, è certamente la grande depressione, il cui irrompere dà il via alla seconda fase di crisi e frammentazione degli interessi imprenditoriali.
  1. Crisi e frammentazione. All’interno del settore agricolo, le trasformazioni produttive presero due forme tra loro complementari: da un lato vi era la contrapposizione tra proprietari terrieri e affittuari-imprenditori; dall’altro il conflitto tra questi due gruppi e il bracciantato salariato. Siamo dunque di fronte all’inizio della scissione di un interesse agricolo che si immaginava unico ed egemone in una molteplicità di gruppi economici con obiettivi diversi e in contrasto tra loro. E’ questo il bisogno di fondo che fa emergere una nuova tipologia di associazionismo, che si lascia alle spalle il prevalente individualismo del passato attraverso la costruzione di organismi settoriali che miravano a difendere interessi specifici e tra loro divergenti .
    Un esempio chiaro di questa dinamica è rintracciabile nelle vicende legate al capitolato d’affitto nella pianura padana durante gli anni Ottanta. Tale situazione vedeva protagonista il gruppo degli affittuari-imprenditori, figura nuova e moderna dell’ agricoltura a conduzione capitalistica padana, i quali si trovavano nella difficile situazione di essere legati a esosi e lunghi contratti d’affitto, contratti durante la decade precedente, dunque in un periodo d’espansione e aumento dei prezzi, da pagare in un momento di brusca caduta dei prezzi e di contrazione delle entrate. Gli affittuari-imprenditori padani, se da un lato reagirono alla depressione economica tagliando il costo del lavoro e dunque innescando le rivolte bracciantili degli anni Ottanta, si contrapponevano però anche ai proprietari terrieri, con i quali desideravano giungere a un diverso accordo circa l’affitto delle terre. Per portare avanti più efficacemente la propria battaglia, gli affittuari-imprenditori si riunirono nella Associazione italiana dei conduttori di fondi, nata a Melegnano nel 1883, che si confrontava con il gruppo dei proprietari terrieri, i quali utilizzavano come luogo aggregativo principale la vecchia Società agraria di Lombardia, fondata nel 1863.
    Due elementi appaiono estremamente interessanti in questo contesto, in particolar modo per quanto riguarda l’Associazione italiana dei conduttori di fondi. Essa mostrava infatti importanti elementi di novità che la ponevano in netta discontinuità rispetto al passato. Da un lato la nuova organizzazione aveva finalità di solidarietà economica di classe, organizzando ad esempio l’acquisto in comune di sementi, concimi e macchine agricole; dall’altro essa possedeva anche :finalità politico-sindacali, facendo pressioni sul governo e conducendo direttamente la contrattazione con la controparte dei proprietari terrieri. Un aspetto interessante da notare, che fa emergere ancora una volta la centralità dell’interesse economico e della necessità dell’ associarsi, è il fatto che non appena le grandi lotte contadine del 1884-1885 cominciarono a minacciare gli interessi condivisi di affittuari-imprenditori e proprietari terrieri, questi due gruppi si unirono in una nuova Lega di difesa agraria, nata a Torino nell’aprile 1885, per far fronte comune contro quello che veniva percepito come un avversario comune: le leghe contadine.
    Un altro esempio della frammentazione degli interessi agrari di questo periodo è rintracciabile nelle vicende legate al rinnovo dei trattati commerciali e al terna delle tariffe doganali, che come nel resto d’Europa domina i dibattiti del periodo. La Lega di difesa agraria riuniva per lo più esponenti di un’ agricoltura cerealicola, gravemente danneggiata dalla crisi economica e dunque favorevole a un innalzamento delle tariffe in entrata, in special modo con l’introduzione di un alto dazio sul grano. In opposizione a essa nacque nel 1884, finanziata dal governo e su iniziativa di Nicola Miraglia, potente direttore generale del Ministero dell’ Agricoltura, la Società generale dei viticoltori. Guidata da Giuseppe Devincenzi, essa si poneva l’obiettivo di sostenere politiche liberiste a difesa di un settore, quello del vino, tipicamente esportatore. Dunque la crisi economica scopriva un mondo agricolo tutt’altro che omogeneo e caratterizzato da interessi diversi che davano vita ad associazioni diverse e in contrasto tra loro.
    Le prime organizzazioni settoriali. Il tema doganale è al centro anche delle vicende associative legate alle industrie. Infatti in questo periodo, quando l’Italia iniziava a sperimentare un primo sviluppo manifatturiero soprattutto nel settore tessile, gli industriali cominciarono a percepire tutti i limiti delle precedenti esperienze organizzative che come, abbiamo visto raggruppavano una moltitudine di interessi merceologici diversi, e iniziarono a optare, come in agricoltura, per strategie mirate a difendere interessi economici specifici. Come osserva Banti, le nuove organizzazioni che nascono a partire dagli anni Settanta hanno una natura «specularmente inversa rispetto alle prime associazioni imprenditoriali: laddove queste erano intersettoriali, le nuove associazioni erano distinte per settore merceologico; laddove le prime erano locali, le seconde ambivano a riunire tutti i produttori del settore»[4]. Nascono così le prime importanti organizzazioni industriali settoriali, non a caso tutte concentrate nel settore tessile, come l’,Associazione dell’industria laniera italiana di Biella; l’Associazione dell’industria e del commercio delle sete di Milano; e l’Associazione cotoniera italiana di Torino. Queste organizzazioni, tutte nate nel 1877, diedero il via a un ciclo organizzativo che arriva fino agli inizi Novecento e che riguarda molte categorie produttive, come ad esempio i fabbricatori di carta (1888), gli elettrici (1898),gli armatori (1901) e via via altri settori per tutto il corso dell’età giolittiana.
    L’associazionismo bancario. In questi anni il movimento associativo settoriale cominciò a investire anche il comparto creditizio, principalmente nelle tre forme delle banche popolari, delle casse di risparmio e delle casse rurali. La prima esperienza in questo senso fu certamente quella delle banche popolari di Luzzatti con la Associazione delle banche popolari del 1876, che venne fondata quale organo di pressione governativa e al tempo stesso di coordinamento finanziario dei diversi istituti facenti parte della rete delle popolari. Nel 1886, invece, si ebbe un primo episodio associativo delle casse di risparmio che, al Congresso di Bologna, convocato per discutere 1o schema per la riforma della legislazione del settore proposta dal governo, stabilirono la nascita della Commissione permanente delle casse di risparmio. L’attività della Commissione permanente fu intensa nel biennio 1886 – 1888 in connessione con i lavori parlamentari per la discussione della legge sulle casse di risparmio, ma declinò immediatamente dopo l’approvazione di questa stessa legge, avvenuta nel 1888, e in concomitanza con le difficoltà bancarie degli anni successivi. Per avere una stabile associazione della categoria occorrerà attendere il 1912, quando venne creata l’Associazione delle Casse di Risparmio Italiane (Acri).
    Più frastagliato e complesso appare invece il percorso associativo delle casse rurali, soprattutto a causa della divisione realizzatasi durante gli anni Ottanta tra il nucleo originale di casse «neutrali» ideato da Wollemborg e le sue rivali confessionali. Se rimane vero che questi due mondi crearono negli anni una molteplicità di organismi associativi, le motivazioni alla base dell’associazione erano sempre simili e ruotavano, come per le altre categorie del credito, intorno alla necessità di creare un soggetto collettivo forte e credibile per confrontarsi con il governo sui temi di natura fiscale e legale. In questo senso una prima Federazione tra le casse rurali «neutrali» nacque nel 1887. Nei decenni successivi la crescita di importanza delle casse rurali cattoliche fu enorme, così come 1o furono gli sforzi organizzativi di queste ultime, che risultarono nella fondazione di una prima Federcasse cattolica nel 1909, sull’onda del1a riorganizzazione dell’Opera dei congressi e della nascita dell’Azione cattolica, e di una seconda Federcasse cattolica nel 1917.
    Occorre sottolineare che le associazioni del settore creditizio nel periodo liberale avevano tutte un tratto in comune, che le differenziava notevolmente da quelle agrarie e industriali. L’associazionismo del settore bancario rimase infatti in questo arco temporale privo di quel conflitto sindacale fondamentale nel definire i tratti delle organizzazioni agrarie e industriali a inizio Novecento Dunque le associazioni bancarie conservano in questo periodo due elementi caratteristici: in primo luogo sono organizzazioni con finalità di pressione politica, per tentare di piegare a proprio favore l’azione governativa; in secondo luogo sono delle organizzazioni tecnico-finanziarie volte a facilitare, uniformare e ampliare le attività creditizie della propria categoria.
  1. Sindacalizzazione. A partire dagli anni Settanta e Ottanta le associazionismo imprenditoriale agricolo, industriale e bancario si scopre sempre più diviso e si specifica in una serie di organizzazioni settoriali. il passaggio qualitativo successivo si compie a partire dalla fine del secolo, quando prende il via la terza fase di più intensa sindacalizzazione delle organizzazioni. Se in precedenza l’elemento chiave era stata la crisi economica, in particolar modo del settore agrario, in questo caso il dato essenziale è l’aumento della conflittualità sociale nelle campagne e nelle industrie, accompagnato dalla fondazione di forti organizzazioni sindacali come la Federterra e la Fiom, entrambe del 1901, e poi la Confederazione generale del lavoro del 1906. Fu proprio questa emergenza che determinò nell’età giolittiana la nascita di tipologie associative decisamente più marcate sul fronte sindacale. Gli imprenditori cominciarono a scoprire infatti che la loro associazione poteva portare dei benefici non solo in termini di pressione sul governo, ma anche in quanto li dotava di uno strumento collettivo stabilmente strutturato per confrontarsi più efficacemente, in modo più o meno conflittuale, con la controparte sindacale.
    Dunque l’età giolittiana è il periodo in cui proprietari terrieri e imprenditori cominciarono a percepire con sempre maggior urgenza la necessità di dotarsi di organizzazioni di solidarietà di classe, con strumenti appositamente creati per poter affrontare il conflitto sindacale. Esperienze di questo tipo caratterizzano sia il settore agricolo che il settore industriale, i cui lavoratori intrapresero grandi lotte nei periodi 1900-1902 e 1906-1908. È in questo contesto che avviene una trasformazione dell’obiettivo fondamentale delle organizzazioni imprenditoriali. Se in precedenza esse erano rivolte soprattutto ad esercitare una pressione sul governo, nella prima decade del Novecento il loro scopo principale diviene quello di mantenere o ristabilire la pace sociale reputata necessaria ad assicurare la continuità della produzione e quindi dei profitti, secondo una logica produttivistica per la quale questi ultimi avrebbero poi arricchito automaticamente tutti coloro che partecipavano al processo produttivo e per questa via l’ intera comunità nazionale. Così, i grandi scioperi dei braccianti di inizio secolo diedero il via in val Padana alla nascita di una serie di associazioni locali di solidarietà tra imprenditori del settore – a Mantova nel 1902, a Ferrara nel 1904 e poi a Bologna, Parma, Ravenna e Rovigo, tutte zone calde della protesta contadina – che fecero da preludio alla nascita della Federazione interprovinciale agraria nel 1907. All’Interprovinciale venne affiancata la creazione, per la prima volta, di una Mutua assicurazione contro i danni dello sciopero, nata sempre nel 1907 , alla cui direzione venne posto Lino Carrara, presidente dell’Associazione agraria parmense e uno dei massimi esponenti dell’ala illiberale e oltranzista degli agrari padani. L’esperienza degli agrari in questo periodo è significativa, in quanto mostra un carattere ancora tendenzialmente refrattario a un associazionismo stabile con atteggiamenti ancora pienamente individualisti e ottocenteschi. Questo è osservabile nel fatto che le associazioni degli agrari venivano fondate e avevano enorme successo nei momenti emergenziali dello scontro, ma cessavano di essere supportate una volta passata la bufera, entrando rapidamente in una fase di inattività che precedeva la loro scomparsa. L’Interprovinciale, ad esempio, venne già sostituita da una nuova Confederazione nazionale agraria nel 1909, la quale andò comunque incontro allo stesso destino dell’Interprovinciale, vivendo una grave crisi di legittimità negli anni immediatamente precedenti alla guerra. Più solido appariva invece l’associazionismo di quegli anni sul fronte industriale, in particolar modo nei poli maggiormente importanti del paese, dunque Milano, Genova e in seguito Torino . La prima profonda differenza con la prassi associativa del periodo precedente in materia di relazioni industriali venne realizzata dagli imprenditori metalmeccanici di Milano e di Genova, con il Consorzio fra industriali meccanici e metallurgici di Milano del 1898 e il Consorzio industriale ligure del 1901, ai quali si aggiunse poi la Lega industriale di Torino, fondata nel 1906, che spostò nel capoluogo piemontese il cuore pulsante dell’associazionismo industriale italiano. Queste nuove organizzazioni cominciarono a occuparsi più da vicino delle controversie sindacali. Le posizioni della Lega di Torino sono particolarmente rappresentative in questo senso. Rispondendo a un periodo di alta conflittualità sociale in un contesto come quello torinese caratterizzato da un recente ma rapidissimo sviluppo industriale di tipo moderno, l’azione della Lega sul fronte sindacale ebbe un’importanza notevole, introducendo grandi elementi di novità. Per la prima volta vennero infatti standardizzate e coordinate alcune strategie di resistenza collettiva degli imprenditori agli scioperi operai, applicando una varietà di strumenti pienamente moderni, come il divieto di assunzione di lavoratori scioperanti appartenenti ad altre aziende consociate nella Lega; la stipulazione di un certo numero di convenzioni e accordi contro 1o sciopero e di mutua solidarietà tra imprenditori, il cui prodotto fu la Società mutua industriale scioperi fondata nel novembre 1911; la formazione di liste di operai scioperanti indesiderabili – quelle che divennero note come «le liste nere» – da far circolare tra gli imprenditori della Lega con relativo divieto di assunzione; e infine la serrata, la cui applicazione individuale veniva potenziata grazie al supporto economico collettivo da parte della Lega industriale. Quel che è interessante notare è che tali strumenti erano emanazione di una concezione dei rapporti di lavoro profondamente diversa rispetto a quella della tradizione italiana fino a quel momento. Nei documenti della Lega i richiami a una pacifica e leale collaborazione tra le classi erano del tutto sporadici e la costruzione di una armonica società non risultava all’ordine del giorno. Gli interessi delle due parti in gioco venivano interpretati come destinati a rimanere divergenti. La creazione di organizzazioni sindacali operaie era in questo senso bene accolta e anzi auspicata, in quanto esse dovevano diventare le controparti privilegiate nella contrattazione in un universo valoriale in cui le varie controversie industriali dovevano venire risolte sul medesimo campo economico, senza interventi governativi. In quella che è stata definita da Abrate la «fase einaudiana»[5] della Lega industriale di Torino, il conflitto non veniva negato , né ci si illudeva che esso potesse essere mai soppresso del tutto. L’esistenza di associazioni del lavoro e di associazioni de1 capitale diveniva invece opportuna e vitale proprio al fine di non ignorare una evidente e naturale contrapposizione di interessi. L’organizzazione degli stessi era dunque essenziale per regolamentare e gestire i rapporti di lavoro collettivi in modo tale da non sconvolgere il funzionamento produttivo, riducendo al minimo le manifestazioni più apertamente conflittuali.
  1. Conclusioni

Dunque, avviandosi alla conclusione, abbiamo visto come l’associazionismo imprenditoriale locale e settoriale era nell’Italia liberale una realtà frammentata, a tratti effimera e certamente episodica, ma estremamente viva. Nei suoi elementi di fondo il processo storico che abbiamo ripercorso corrisponde allo sviluppo della società italiana verso una dimensione pienamente industriale e di massa, dal punto di vista economico, politico e sociale. In corrispondenza di tale evoluzione vi è, dal lato degli imprenditori, un processo di progressiva presa di coscienza del proprio ruolo e delle proprie specifiche necessità collettive, che vengono via via organizzate in forme sempre più strutturate, settoriali e sindacalizzate, con 1o scopo finale di tutelare gli interessi di gruppi economici ben identificati facendo così da preludio all’associazionismo nazionale degli anni successivi.

 

[1] M. Moneta, “Forme e tendenze dell’associazionismo industriale italiano dalle origini alla costituzione della Confederazione Generale dell’Industria ( 186 1 -1919)”, in Annali di storia dell’impresa, n. 8, 1992, p. 26 I 

[2] R. Melchionda, Firenze nei suoi incerti albori industriali, Le Monnier, Firenze,1988, p. 407

[3] E. Ragionieri, «La storia politica e sociale», in Storia d’Italia, vol. IV. Dall’Unità a oggi, tomo III, Einaudi, Torino, 1976, p. 1688

[4] A.M. Banti, Storia della borghesia italiana, Donzelli, Roma, 1996, p. 162.

[5] M. Abate, La lotta sindacale nell’industrializzazione in Italia 1906 – 1926, Franco Angeli, Milano, 1967, pp. 49-55, ripresa anche dal G. Berta, Il governo degli interessi industriali, rappresentanza e politica nell’Italia del Nord-Ovest 1906 – 1924, Marsilio, Venezia, p. 10.