Maria Guercio
Presidente Associazione Nazionale Archivistica italiana
- Gli archivi contemporanei e digitali
Il tema degli archivi contemporanei e soprattutto di quelli digitali è molto impegnativo da qualunque prospettiva si voglia affrontarlo: concettuale, organizzativa, economica, tecnica. Sono tutte prospettive necessarie, e complementari e richiedono una visione integrata, inevitabilmente complessa. Non ci deve quindi meravigliare troppo se non sono bastati i 25 anni trascorsi dalle prime iniziative in questo campo per avere a disposizione soluzioni sostenibili e infrastrutture adeguate. Il primo passo significativo (non solo per il nostro Paese) è a mio avviso riconducibile al grande convegno internazionale organizzato nel 1993 a Roma da Tullio Gregory e dall’allora presidente di Ibm Italia Marcello Morelli dedicato proprio alle fragilità del digitale: si scelse un’espressione folgorante ed efficace – L’eclisse delle memorie – per interro gare esperti di tutto il mondo sul futuro degli archivi digitali e sulle condizioni complessive per loro sopravvivenza. un volume pubblicato per i tipi di Laterza[1] raccolse saggi che consentirono allora di indicare con chiarezza obiettivi e criticità del lungo percorso di trasformazione digitale che avrebbero dovuto affrontare le istituzioni e i professionisti nei decenni a venire. I problemi sollevati in quella sede sono stati infatti oggetto di ricerche pluriennali a livello europeo e internazionale (quest’anno a dicembre si ricordano i vent’anni di vita di InterPares, il più grande e longevo progetto di indagine condotto sulla conservazione digitale, guidato da un’archivista italo-canadese Luciana Duranti che ha visto la partecipazione di centinaia di studiosi e professionisti di tutto il mondo, compresi i ricercatori e professionisti del nostro Paese). L’Italia ha collaborato a InterPares dall’inizio grazie al contributo di istituzioni prestigiose tra cui si contano la Banca d’Italia, la Direzione generale degli archivi, l’Associazione Nazionale Archivistica italiana. le Regioni Emilia Romagna e Toscana, le Università di Roma La Sapienza, di Urbino e di Padova. I problemi sollevati allora e le proposte avanzate in seguito si sono tradotti anche in un complesso quadro normativo che ha riguardato l’Italia in modo particolare, sia per la precocità degli interventi (anche in questo caso sono passati 25 anni dal primo provvedimento contenuto nella famosa legge finanziaria del 1992), sia per la molteplicità di norme di vario livello e di varia natura che nel corso dei decenni hanno dato vita a un insieme apparentemente completo di disposizioni tecniche che tuttavia presentano ancora una intrinseca debolezza in termini di sostenibilità organizzativa e, quindi, non cancellano le preoccupazioni degli archivisti sulla continuità, sulla durata, sull’autenticità e sulla fruibilità nel lungo periodo del patrimonio documentario digitale.
- La fragilità delle fonti digitali
Considerata la necessità di fornire in questa sede indicazioni sintetiche, è inevitabile per chi parla tralasciare qualunque approfondimento dei nodi tecnici e concettuali che la corretta conservazione delle nuove fonti archivistiche deve considerare e sciogliere. È altrettanto inevitabile concentrare l’analisi a quegli aspetti di natura generale che, peraltro, testimoniano, ancor più delle questioni strettamente tecniche, la fragilità delle fonti digitali: un ordine di problemi che non riguarda l’incapacità di affrontare gli aspetti tecnologici della loro natura, bensì la sottovalutazione della loro dimensione archivistica, che è essenziale per la qualità e la stessa sostenibilità della conservazione anche quando la documentazione non è direttamente riconducibile all’archivio. In sostanza si sostiene qui che la difficoltà principale della conservazione (degli archivi in particolare, ma anche di altri tipi di fonti) dipende principalmente e banalmente dal fatto che tanto il legislatore quanto i soggetti produttori di documenti non hanno compreso o considerato (per mancanza di conoscenze specifiche e per l’assenza in entrambi i casi delle figure tecniche di riferimento) che i documenti prodotti nell’esercizio di un’attività pratica, (amministrativa o tecnica) hanno nella loro natura originaria la necessità di correlarsi e di tener conto dei contesti funzionali di lavoro che devono essere opportunamente documentati. Si tratta certo di una riflessione banale (almeno in apparenza) ormai largamente condivisa anche in ambienti diversi e lontani da quelli tecnici. Tutti gli studi di settore condotti a livello internazionale sui processi di trasformazione digitale confermano che la fragilità delle memorie digitali dipende da molti fattori, ma soprattutto dalla loro polverizzazione e dalla perdita del contesto di riferimento: lo stillicidio di dati, informazioni, documenti privi di elementi di contestualizzazione producono un ecosistema informativo di cui non ci si può più fidare.
- I pericoli per gli archivi
Gli archivi (soprattutto, ma non solo, nella loro forma digitale) sono esposti più di altri patrimoni informativi ai pericoli che derivano dalla perdita di collegamenti e riferimenti, dalla parcellizzazione dei flussi di informazione e dalla loro contemporanea e incessante moltiplicazione. Il fatto che il legislatore italiano – sia pure in forme meno radicali rispetto a quanto avvenuto in altri paesi – non abbia sempre ben compreso la natura la funzione archivistica dei documenti che produciamo in grande quantità e che danno continuità al nostro operato ha prodotto conseguenze pesanti sul processi pur fortemente sostenuti. Per decenni le norme si sono dedicate, quasi con accanimento, al documento informatico in quanto entità autonoma e isolata, all’uso delle firme elettroniche per sottoscriverlo, alle marche temporali per datarlo, ai sistemi di posta elettronica per comunicarlo. Tutti aspetti importanti che non avrebbero dovuto però perdere di vista il ruolo specifico che gli archivi svolgono proprio in quanto insiemi documentari complessi, perché sono in grado di acquisire e mantenere una molteplicità di informazioni di contesto che l’attenzione esclusiva (o quasi) del nostro legislatore all’entità documento ha finito per cancellare (i legami tra i documenti e il procedimento o l’,affare, le informazioni sugli uffici e sugli organigrammi, le procedure e le regole che sovrintendono al flusso delle informazioni necessarie a prendere le nostre decisioni e al modo stesso in cui le decisioni sono adottate). Sorprende prendere atto del fatto che proprio la nostra epoca, dotata di strumenti di memorizzazione potenti e raffinati, corra il rischio di perdere e disperdere la qualità della propria memoria.
Eppure nei secoli i documenti si sono conservati come parti di un archivio e di archivi si sono nutriti gli studiosi nel ricostruire o interpretare il passato. Sono gli archivi che proteggono efficacemente le istituzioni, il diritto a ricercare e la possibilità di ritrovare. I documenti rappresentano singoli atti. Gli archivi sono ricchi di molto altro: legami e connessioni non scontate, spesso imprevedibili, materiali interlocutori e provvisori, annotazioni formali e informali che si definiscono e si accumulano insieme al nostro operare e lo documentano. È da un carteggio (e non da una singola nota) che comprendiamo la complessità di una decisione; è sfogliando il fascicolo di un progetto che ne identifichiamo le criticità e le potenzialità; è dal fascicolo di contenzioso che possiamo ricostruire o ipotizzare eventi, fatti che nella sentenza non trovano posto. Gli archivi, se pianificati con strumenti di organizzazione adeguati (in primo luogo con buoni piani di classificazione), sono capaci di restituire storie di persone e di istituzioni ben al di là della somma delle loro parti o dei frammenti che si accumulano casualmente. Lasciano tracce anche a prescindere dalla volontà di chi li produce e li conserva (ad esempio, perché inseriti in fascicoli ben formati), mantengono quei collegamenti impliciti e funzionali forniti dalla sequenza logica dei documenti che si sono sedimentati nella stessa cartella secondo un titolario coerente. Nel mondo analogico le tracce si depositano e permangono, anche se il sistema originario era disordinato e privo di strumenti adeguati o se l’ordine si è perso. La dimensione digitale, invece, non lascia margini di restituzione che non sia stata progettata con largo anticipo e con attenzione alla qualità, alla accuratezza e alla tenuta nel tempo del dato e delle sue relazioni. È impossibile trovare collegamenti digitali significativi, se non c’è stata cura nella definizione di regole originarie per documentarli o quando la dispersione o la disattenzione nelle fasi di tenuta e conservazione ne hanno impedito il mantenimento corretto. Sperimentiamo tutti i giorni, come dipendenti, utenti, ricercatori, i risultati negativi di questa lunga fase di trascuratezza che ha dato vita a fenomeni diffusi (talvolta irreversibili) di:
- polverizzazione degli archivi e rinuncia alla loro funzione primaria di salvaguardia della memoria breve in modi che sostengano la memoria di lungo periodo;
- impoverimento delle forme tradizionali di organizzazione dei documenti (non si classifica, non si fascicola, non si organizza e quindi non si scarta; anzi si duplica cullandosi nella falsa certezza che le parole chiave e l’intelligenza artificiale ci salveranno dalla confusione e dal disordine);
- amento vertiginoso di quantità di informazioni disponibili ma non gestite;
- crescita di flussi informativi incontrollati ed esterni ai canali ufficiali e legati all’uso non governato negli uffici pubblici e nelle organizzazioni private di caselle di posta elettronica personali, funzionali, istituzionali e certificate ma anche dei sistemi di whatsapp e di messaggistica, il cui contenuto solo sporadicamente trova ricovero nel sistema documentario dell’ente, per essere trattato come parte dell’archivio.
La parcellizzazione della documentazione digitale prodotta nella vita attiva delle organizzazioni si materializza spesso sulle scrivanie di ciascuno, si sedimenta confusamente in faldoni di fotocopie prive di validità giuridica, in cartelle digitali condivise fuori controllo oppure in sistemi informativi a silos (auto-consistenti, isolati, costosi da gestire e impossibili da conservare): sono prassi diffuse ormai da decenni che hanno determinato conseguenze devastanti sulla qualità e sulla coerenza della documentazione corrente. È sempre più raro che si formino nella fase attiva dei sistemi documentari aggregazioni (soprattutto fascicoli) organiche e funzionali, capaci cioè di accompagnare e sostenere i processi decisionali con informazioni e documenti completi e affidabili, nonostante lo sforzo specifico e costante con cui gli archivisti negli ultimi decenni hanno difeso le buone pratiche, definendo linee guida e formando il personale degli enti. il management risponde spesso a questa criticità in modo contraddittorio confondendo i fini con le cause, ad esempio imponendo la riduzione degli spazi o pretendendo con urgenza scarti che non possono neppure essere pianificati nel caso di sistemi documentari privi di forma. Sembra spesso non rendersi conto che la razionalizzazione in questo come in altri settori (inclusi gli interventi di selezione e scarto) richiede un investimento a monte (strumenti adeguati, piattaforme qualificate, buone policy, azioni di monitoraggio, presenza di personale competente, formato e consapevole). A queste fragilità organizzative, spesso dovute anche a «ignoranza tecnica», dobbiamo naturalmente aggiungere – nel caso dei patrimoni digitali – quelle strettamente legate alla loro specifica natura quali l’obsolescenza dei supporti, dei formati, dei sistemi o la necessità di migrare i contenuti e i servizi da un ambiente a un altro, attraverso generazioni di prodotti la cui evoluzione dipende da logiche di mercato su cui non abbiamo sufficiente controllo operativo.
- Le possibili cure
La diagnosi che riconosce la fragilità del mondo documentario digitale richiede, naturalmente, cure adeguate. La risposta «politica» degli archivisti è tutto sommato semplice, almeno sul piano della individuazione del fabbisogno:
- cura precoce dei patrimoni documentari (in grado di evitare inutili e costose ridondanze);
- custodia sicura e personale competente.
Più complesso e impegnativo è il lavoro che si richiede per tradurre queste indicazioni in termini tecnici. Per restare fedeli all’esigenza di una presentazione sintetica dei problemi senza venir meno al bisogno di concretezza che un intervento efficace e urgente richiede, ci si limita a ricordare che le soluzioni da perseguire senza indugi riguardano la presenza di:
- luoghi/depositi selezionati e protetti che offrano un riparo precoce e qualificato;
- procedure e strumenti controllati e conseguente capacità, non solo di formare e mantenere documenti autentici, ma anche di gestirne nel tempo la ricchezza e la qualità delle loro relazioni;
- professionisti altamente competenti;
- programmi di lavoro sostenuti dalla presenza di comunità di pratiche e dalla collaborazione di reti di istituzioni disposte a condividere strategie e soluzioni operative.
Le azioni da avviare sono quindi di natura organizzativa e sono finalizzate a:
- anticipare il più possibile le fasi di recupero ai fini di conservazione dei documenti ufficiali e non;
- acquisire (documentando e rendendo comprensibili agli utenti) i modi originari della loro organizzazione;
- assicurare investimenti rilevanti e continuativi nel tempo sia per le infrastrutture fisiche che per i sistemi di sicurezza e le piattaforme digitali, troppo spesso lasciate alla buona volontà di un mercato disattento e scarsamente monitorato.
I tecnici che operano in questo ambito con competenze archivistiche costituiscono un fattore cruciale:
- perché sono consapevoli della fragilità dei patrimoni digitali e della natura flessibile e dinamica degli strumenti necessari a gestirli e ad accompagnare la trasformazione organizzativa e tecnologica in atto;
- perché da tempo hanno compreso che la complessità delle innovazione deve essere valutata in termini di costi/benefici e analisi dei rischi e accompagnata da policy e un sistema ben definito.
- Conclusione
In sostanza e in conclusione, bisogna superare l’illusione di una innovazione tecnologica in grado di «fiorire» senza intermediazione culturale e senza soluzioni organizzative adeguate (depositi e un sistema di responsabilità riconducibile al servizio per la gestione dei documenti e degli archivi). senza competenze specifiche (archivisti sempre selezionati e aggiornati al massimo livello di qualità) , senza. strumenti di supporto (piattaforme incluse) altrettanto qualificati.
La collaborazione è necessaria, non certo per contrastare la trasformazione, ma per sostenerla nei fatti, perché si traduca in un cambiamento reale che faciliti il lavoro delle persone e incontri le esigenze dei nostri utenti e cittadini. L’iniziativa delI’ABI, a difesa del suo patrimonio documentario ma anche come occasione per sottolineare la rilevanza dell’intero patrimonio archivistico dell’ associazionismo imprenditoriale. è di grande rilievo: è un invito alla collaborazione tra le istituzioni di tutela, i soggetti produttori di memoria e i professionisti del settore per dare peso e riconoscibilità alla memoria storica che contribuiamo tutti a creare nella formazione quotidiana delle nostre sedimentazioni documentarie. Un invito che la comunità archivistica raccoglie con convinzione e disponibilità e che rilancia proponendo l’organizzazione condivisa di iniziative a sostegno dei patrimoni archivistici riprendendo e approfondendo temi già al centro di molti interventi con l’aggiunta questa volta di un richiamo più forte al coinvolgimento degli utenti, al fine di renderli più consapevoli della pervasività e della ricchezza degli archivi, ma soprattutto della necessità di garantirne e potenziarne la funzione originaria quanto strumenti organizzati ed efficienti capaci di conservare e restituire le tracce del nostro passato in modo comprensibile anche alle generazioni future.
[1] T Gregory e M. Morelli (a cura di), L’eclisse delle memorie, Laterza, Bari, 1994