L’archivio storico dell’Associazione Bancaria Italiana: stato dell’arte del riordinamento

Leonardo Musci

Presidente Memoria srl

  1. I presupposti del progetto

È un po’complicato, ma anche stimolante, parlare dopo interventi così densi come quelli di Monica Grossi e di Mariella Guercio. Il mio compito, peraltro, è ben preciso: illustrare un’esperienza di lavoro. Cercherò di svolgere il tema senza indulgere in eccessivi tecnicismi.

Il rapporto fiduciario è una modalità di lavoro che le banche conoscono bene e sulla quale hanno spesso basato i loro successi, così come esse conoscono bene le tecniche per condurre le istruttorie preliminari agli affidamenti. Tra l’altro, fiduciario e affidamento hanno anche la medesima etimologia. L’Istituto Einaudi ha praticato con noi di Memoria entrambe queste metodiche. Immagino che abbia svolto indagini severe per poi aprirci, con l’affidamento del lavoro di riordinamento dell’archivio storico dell’ABI, un credito di fiducia che tocca ora a noi ripagare. Quindi il ringraziamento pubblico, oltre che per l’invito a parlare qui oggi, è per l’occasione preziosa di lavoro che ci è stata data.

Ci sono committenti distratti e committenti operosi: l’Istituto Einaudi si annovera tra questi ultimi. L’intensità del confronto preparatorio per definire il metodo e le fasi del lavoro è stata di un livello che raramente si riscontra, in quanto si è dato vita a una fase di conoscenza reciproca che ha poi prodotto la formazione di un gruppo di lavoro convinto del percorso intrapreso. Laddove per gruppo di lavoro intendo non solo gli archivisti che affrontano gli agi e i disagi del quotidiano operare per il riordino dell’archivio storico dell’ABI (Nicola Pastina, coordinatore, nonché Valentina Cioffi, Andrea Gasbarri e Stella Zambonini), ma anche tutti quelli che hanno responsabilità di governo e di produzione dell’obiettivo prefissato. A questo riguardo, la dottoressa Maria Emanuela Marinelli, cui spetta nell’ambito della Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio la competenza di vigilanza sull’archivio dell’ABI, può testimoniare la serietà con cui abbiamo discusso anche questioni di teoria archivistica per definire il modo di trattare la mole notevolissima delle carte che ci sono state affidate. Da ultimo, anche l’attenzione con cui, in corso d’opera, vengono analizzati e criticati i prodotti intermedi che consegniamo ha creato un clima positivo, in cui siamo tutti, nei rispettivi ruoli, tesi a raggiungere un risultato di qualità.

  1. Il riordinamento dell’archivio storico

Ciò premesso, ricordo che sono stato chiamato a dar conto allo stato dell’arte del riordinamento dell’archivio storico dell’Associazione Bancaria Italiana e, come accennato all’inizio, immagino che non vi aspettiate una trattazione troppo tecnica.

Qualche elemento di contesto può essere utile per capire ciò che stiamo facendo. Innanzitutto la dimensione dell’archivio, richiamata anche dal Presidente Sella. Più di un chilometro di carte: se mettessimo in fila buste, faldoni, raccoglitori potremmo andare da qui al Palazzo de Quirinale o, se preferite, al Palazzo della Banca d’Italia. Questa consistenza sconta alcune serie lacune, di cui dirò, ma sottostima la documentazione degli ultimi 20 anni, in parte ancora conservata presso gli -uffici perché ritenuta utile per il disbrigo degli affari correnti. Questo è un aspetto che potrebbe essere affrontato al termine dei lavori sull’archivio storico nell’ottica di una rinnovata attenzione per il ciclo integrale di vita dei documenti ABI.

Abbiamo pochissime carte della «prima» ABI di Bianchini e di Della Torre, cioè dell’Associazione operante tra il 1919, anno della sua costituzione, e il 1926. Si tratta peraltro di un destino comune agli archivi di enti disciolti dal regime fascista tra il 1926 e il 1928 in conseguenza della concentrazione in organismi di diritto pubblico delle funzioni di rappresentanza e di tutela di interessi svolte fino ad allora da soggetti di diritto privato. Si pensi, ad esempio, all’analoga vicenda vissuta dall’unione delle Camere di Commercio italiane, che pure conosciamo per esperienza archivistica diretta.

Il poco che abbiamo, oltre alla serie completa delle circolari, ci viene da quello che riuscì a recuperare Gianfranco Calabresi al momento della costituzione, nel 1944, dell’Ufficio Interbancario, da cui l’anno dopo scaturì la “nuova” ABI. Su questo specifico punto, a ordinamento concluso, si potrebbe aprire una finestra di lavoro ipotizzando una ricerca, documentaria presso gli archivi degli enti che ebbero/dovettero avere rapporti istituzionali con l’ABI fino al 1943; è un’operazione che è già stata fatta per l’Unioncamere e che ha dato frutti importanti. Non si tratterebbe, si intende, di ricostruire un archivio (una vera contraddizione in termini), ma di fare una ricerca documentaria che non darebbe forma, ma sicuramente contenuto a quello che è andato disperso.

Realizzare un inventario sommario. Proseguendo nell’illustrazione del lavoro che stiamo facendo, vorrei chiarire il tipo di prodotto che stiamo elaborando, cioè l’obiettivo che stiamo perseguendo. Noi intendiamo realizzare un inventario sommario: si può parlare di inventario perché è frutto di ordinamento, ma occorre qualificarlo come sommario perché non scende nella descrizione della singola unità archivistica.

D’intesa con l’Istituto Einaudi, abbiamo concepito l’operazione come una sorta di trampolino di lancio per la fase successiva consistente nell’inventariazione analitica dell’archivio o di alcune sue parti. In altre parole, stiamo lavorando alla redazione di un documento finalizzato ad assicurare la conoscenza totale dell’archivio e che possa consentire ai responsabili del progetto di scegliere, in un secondo momento, le sezioni sulle quali intervenire in maniera prioritaria con un carotaggio di maggior dettaglio.

Preliminarmente all’avvio del lavoro di inventariazione sommaria – e anche questa scelta è stata fatta di comune accordo con l’Istituto Einaudi – è stata realizzata una guida generale all’archivio, adottando un approccio di conoscenza dell’archivio per gradi che si sta rivelando molto proficua.

Il titolario di classificazione. Un archivio di queste dimensioni è un universo complesso da affrontare, prodotto di una stratificazione nel tempo di modalità diverse di produzione e conservazione documentaria, infido nella sua apparente linearità. Questa «linearità» è dovuta principalmente al fatto che negli anni Cinquanta fu impiantato e reso obbligatorio per il lavoro di tutti gli uffici un titolario di classificazione. Questo titolario ha avuto una vitalità straordinaria poiché ha governato l’archiviazione ABI fino alla metà degli anni Novanta per poi cadere lentamente in disuso, anche se in maniera non omogenea all’interno delle singole strutture.

Osservando questa situazione ho pensato a un brano di un famosissimo articolo scritto da Claudio Pavone nel 1970 nel quale discuteva la vexata quaestio del rapporto tra soggetto produttore e archivio nel contesto di una discussione sul cosiddetto metodo storico[1]. Nel suo intervento Pavone sottolinea come l’introduzione dei titolari spezzò programmaticamente il rapporto ingenuo e quasi aurorale tra ‘archivio e l’istituto, cioè il soggetto che lo produce. Il titolario mirava infatti a rendere facile e tempestivo, ai fini del miglior funzionamento dell’istituto (o dell’ufficio) che lo adottava, il reperimento di un singolo atto in mezzo alla mole sempre crescente di tutti gli altri documenti, basandosi soprattutto sul criterio classificatorio delle competenze. Quella appena enunciata costituisce evidentemente una definizione di scuola, ma essa ben si attaglia all’archivio dell’ABI sotto lo specifico profilo del rapporto tra il soggetto produttore e le carte che ha prodotto.

Alla fine degli anni Sessanta si era sviluppato un acceso dibattito su quanto l’archivio dovesse costituire lo specchio preciso del soggetto che l’ha prodotto. Pavone passò un energico colpo di spugna su tutte queste discussioni e fece fare alla teoria archivistica un salto di qualità che ha avuto rilevanti ricadute tecnico-pratiche, dal momento che ormai è accettato da tutti il principio che l’archivio rispecchi innanzitutto il modo in cui l’istituto organizza la propria memoria, cioè la propria capacità di auto-rappresentarsi in rapporto alle proprie finalità pratiche (Pavone la definisce «capacità modesta, ma precisa di conferire un ordine formale alla memoria dell’istituto»). Il rispetto della dimensione diacronica nel succedersi di identità diverse e di diverse pratiche autorappresentative è, dopo Pavone, uno dei cardini dell’archivista ri-ordinatore.

Ho sentito citare da alcuni relatori il principio idealistico-crociano della libertà quale chiave di comprensione delle esigenze che hanno determinato la nascita e lo sviluppo dell’associazionismo imprenditoriale. Analogo approccio si potrebbe adottare nella scelta del metodo (storico o soggettivo?) da utilizzare nel lavoro di riordinamento affidato all’archivista. Peraltro negli archivi, come quello dell’ABI, caratterizzati dalla presenza di un titolario si potrebbe dire che il metodo storico sia costituito dal titolario stesso, la cui adozione fu imposta dalla crescente mole delle competenze che negli anni Cinquanta e Sessanta furono via via riconosciute alla stessa Associazione.

Se voi leggete il titolario dell’ABI capite bene la complessità e soprattutto il progressivo radicamento nella socialità bancaria dell’Associazione, che si veniva affermando come un’associazione di istituti al servizio dell’intera popolazione italiana e, quindi, con un evidente impatto sul meccanismo di funzionamento e di modernizzazione del Paese.

Quando noi ci siamo approcciati per la prima volta all’archivio dell’ABI ci è sembrato un archivio che non aveva quasi bisogno di intervento, poiché sembrava apparentemente ordinato. Ma questi sono gli archivi più insidiosi: nascondono un po’ di polvere sotto al tappeto non perché qualcuno ce l’abbia voluta mettere, ma perché proprio la scelta classificatoria illude che l’archivio venga su da sé.

Certo, sarebbe venuto su da sé se la qualità dei professionisti che producevano i documenti di lavoro dell’ABI, la convinzione di farlo in maniera ordinata e la capacità di coordinarne la progressiva evoluzione fosse rimasta intatta proprio mentre l’archivio evolveva in un’entità sempre più complessa sino all’esplosione degli anni Novanta quando il dibattito, ad esempio, sui sistemi di pagamento o sull’unificazione della moneta a livello europeo facevano salire ancora più di livello la complessità delle materie trattate. Non è un caso che proprio in quegli anni si affermasse quella che Mariella Guercio ha definito l’illusione dell’information retrieval, cioè l’illusione che con una domanda a un data-base sia possibile trovare tutto. Non è così: non trovi tutto perché trovi troppo. Non è un caso che proprio in quegli anni si siano perse alcune coordinate di ordinamento preliminare dell’archivio dell’ABI. Sembra ormai abbastanza assodato che il nostro tempo debba pagare un tributo alla “grande transizione” dalle modalità classiche analogiche di registrazione delle informazioni su supporti fisici consueti per secoli a quelle digitali che abitano il futuro. La velocità dell’innovazione tecnologica, la rapida obsolescenza dei supporti, l’euforia per le potenzialità di immagazzinamento a scapito della durevolezza di quanto immagazzinato sono tutti elementi che hanno prodotto dimenticanza delle buone maniere archivistiche e spostato l’asse della cura dall’ordinamento (solidità, struttura, carpenteria) alla descrizione (soggettività, contenuto, arredo).Tocca a noi prendere il meglio di entrambe le coordinate e vivere gli insegnamenti di scuola non come un fardello ma come le coordinate con le quali misurare l’analiticità descrittiva e il nostro mondo fatto di dati.

  1. Conclusioni

In conclusione e per sintetizzare, l’intervento che stiamo compiendo è un lavoro, ovviamente, di fedeltà alle tracce che noi troviamo e che dobbiamo ripercorrere. Ma è anche un lavoro di approfondimento contenutistico e, perché no, di mediazione tra la domanda storica e la domanda archivistica di programmazione inventariale, cosicché siamo chiamati a trovare delle sintesi e le sintesi si trovano nella descrizione, cioè sul versante «contenuto» senza dimenticare il versante «forma-struttura» (che poi è quello dell’ordinamento).

In questo momento il lavoro si trova ai 4/5 del suo percorso e presenta un carattere aperto nel senso che le sezioni che abbiamo già ordinato non vanno ritenute definitivamente chiuse perché fino all’ultimo momento l’ordinamento dell’archivio potrà essere rimesso in discussione, ovviamente al netto del «pericolo Penelope», cioè della tentazione di un ripensamento continuo in cui sovente gli archivisti rischiano di cadere. Ulisse prima o poi arriva. In questo sforzo ci sorregge la consapevolezza che l’universitas rerum con la quale ci stiamo confrontando è molto complessa e pone la necessità di trovare una sobria quadra di sintesi tra forma e contenuto nella restituzione inventariale.

Ma poiché per fare questo occorre anzitutto durare, vi faccio e mi faccio un augurio/viatico con le parole di Primo Levi, secondo il quale «ci sono mestieri che distruggono e altri che conservano. Fra questi ultimi sono da annoverare per un naturale compenso, i mestieri che consistono nel conservare qualche cosa: documenti, libri, opere d’arte, istituti, istituzioni, tradizioni. Proprio per questo, è esperienza comune che i bibliotecari, i guardiani dei musei, i sacrestani, i bidelli, gli archivisti [e, perché no, i bancari] non soltanto sono longevi, ma conservano se stessi per decenni senza visibili alterazioni[2]». I bancari li ho aggiunti io.

 

[1] C. Pavone, ”Ma è poi tanto pacifico che l’archivio rispecchi l’istituto?”, in Rassegna degli Archivi di Stato, a. XXX, 1970, n. l, pp. 145-149.

[2] P Levi, “Versamina”, in Il Giorno, 8 agosto 1965 e poi in Storie naturali, Einaudi, Torino, 1966.