Luigi Einaudi e le associazioni operaie e industriali

Francesco Dandolo

Ordinario di storia economica, Università degli Studi di Napoli Federico II

  1. La formazione del giovane Einaudi

Einaudi e la realtà sociale. Tra la fine Ottocento e gli inizi del Novecento l’Italia è sconvolta da una forte instabilità sociale. Si succedono scioperi e occupazioni di fabbriche. Il tradizionale strumento della repressione risulta inefficace.

Il giovane Einaudi è un osservatore attento, convinto che l’economista deve immergersi nella realtà. Acquisisce dimestichezza con le questioni agrarie e i temi connessi alla produzione industriale. Lo scenario privilegiato è Torino, che negli ultimi decenni dell’Ottocento muta la sua fisionomia sociale.

Le influenze sul pensiero di Einaudi. Mario Draghi ha evidenziato che nel giovane economista piemontese ha un posto di rilievo la valorizzazione delle risorse umane della società.

In effetti, nella formazione di Einaudi si colgono varie influenze:

  • la cultura storica, che offre una percezione dinamica della realtà;
  • la cultura positivista come ponte fra le scienze naturali e sociali;
  • i contatti con il socialismo di Filippo Turati e la collaborazione con Critica Sociale;
  • la passione per il giornalismo;
  • l’orientamento progressista, reso evidente con la collaborazione alla Riforma sociale, di cui diviene direttore dal

La poliedricità di Einaudi. In Einaudi, dunque, l’economista si intreccia con 1o storico, il pubblicista, e, più avanti nel tempo, con 1o statista, mantenendo fermala prospettiva liberista come bussola per interpretare 1’evoluzione economica. A questa impostazione si connette un atteggiamento di stima nei confronti dei protagonisti della produzione: «Non mi è mai accaduto – annota nel 1916 – di discorrere con un operaio, un industriale, un banchiere, un commerciante serio, laborioso e fortunato, senza imparare molto da lui».

  1. Einaudi economista classico

In tal modo Einaudi si immette nella tradizione del pensiero economico classico, approfondendo i legami fra teoria economica liberista e legislazione sociale. Per annodare i fili di una realtà tanto complessa è necessario aprirsi a una molteplicità di contatti: infatti intrattiene relazioni con personalità molto eterogenee, quali Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Einaudi, tuttavia, è ben lungi dall’esaltare il mestiere dell’economista. È consapevole che è difficile muoversi nell’ottica dell’interesse comune, aspetto quest’ultimo che acquista centralità nei suoi primi scritti. Spiega ai suoi studenti all’università di Torino: «L’economista non può separarsi da sé stesso, dalle sue solitudini, dagli interessi propri e della classe a cui appartiene».

I bisogni dell’uomo e l’analisi dell’economista. A complicare la sua missione concorrono i bisogni dell’uomo che «aumentano all’infinito». Bisogni che affiorano con nettezza nei luoghi della contrattazione sindacale. Così il primo Einaudi è sollecitato ad addentrarsi nello studio delle relazioni industriali, l’ambito in cui si manifesta la straordinaria mutevolezza dei bisogni degli uomini. Da qui la necessità di osservare attentamente i rapporti fra capitale e lavoro, che caratterizza la sua prima stagione di studioso.

Le leghe dei lavoratori. Nell’analizzare le lotte sociali che caratterizzano l’Italia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il riferimento assiduo è l’Inghilterra. Einaudi stesso confessa spesso la sua ammirazione per il mondo anglosassone, definendola (sono sue parole) una fissazione. Ma l’aspetto che Einaudi sottolinea è la dimensione della libertà di cui ciascun lavoratore deve poter godere: «Se ognuno può associarsi ad altri, nessuno può però essere costretto a rimanere nella lega». Le associazioni di rappresentanza dei lavoratori sono allora spazi liberi, basati su due principi fondamentali:

il rispetto reciproco;

l’attuazione degli accordi sottoscritti con le controparti. In particolare sugli accordi, Einaudi insiste che devono essere in linea con le leggi del mercato. Le associazioni operaie, quindi, sono corpi intermedi che si guadagnano il consenso fra i lavoratori, senza discostarsi da una visione liberista

Le vertenze. In merito alle vertenze, Einaudi manifesta chiare prese di posizione. In primo luogo, osserva che è necessario collegare le rivendicazioni all’evoluzione del quadro macroeconomico nazionale. Pertanto, è possibile attuare in Italia forme di redistribuzione del reddito solo se vi è un significativo innalzamento della produzione. Non vi è risultato peggiore – secondo il giovane economista piemontese – che la classe operaia ottenga l’irrobustimento dei salari a spese dei profitti e degli interessi dei capitalisti. Sull’orario di lavoro Einaudi è prudente, giudicando la rivendicazione «inopportuna e intempestiva». Nel complesso, Einaudi invoca un ridotto intervento dello Stato, perché altrimenti la sua azione diviene – sono sue parole – “uno dei più efficaci strumenti per comprimere lo slancio dell’iniziativa individuale sotto il peso di imposte irrazionali e vessatorie”.

Lo stato liberale. La dialettica sociale deve avvenire nella cornice dello Stato liberale inteso come Stato minimale, in cui si assicurano le libertà fondamentali: quella di opinione, di potersi coalizzare in associazioni sindacali, di sciopero, di libera negoziazione fra le parti. Lo Stato non deve andare oltre. In tal modo si preserva la tranquillità nei rapporti sociali e i conflitti fra imprenditori e operai sono pacificamente composti. Fra gli obblighi di cui deve farsi carico la classe politica, tuttavia, vi è la necessità di un assiduo dialogo con il mondo del lavoro più evoluto, che Einaudi identifica con la nascente classe operaia dell’Italia nord-occidentale. Questa apertura può agevolare 1o sviluppo delle leghe operaie, associazioni che concorrono a “un’organizzazione del lavoro efficace e pronta”.

L’Aristocrazia operaia. Risulta pertanto cruciale la formazione di un’«aristocrazie operaia» che deve porsi alla guida delle masse lavoratrici. La missione delle leghe è dunque complessa: essere organismi popolari, in grado di attirare «l’attenzione delle masse affini», cui deve accompagnarsi un processo di rigorosa crescita morale. In questa prospettiva l’associazionismo dei lavoratori è compatibile con un’economia liberista: solo in casi estremi, infatti, si è costretti a ricorrere al loro scioglimento.

L’imprenditore. Nel delineare tali scenari, Einaudi è conscio che in Italia si è solo agli inizi. Tuttavia, è ottimista: come mostra l’evoluzione dei movimenti operai in altri paesi, anche in Italia si compirà un processo progressivo. In tal modo, Einaudi si muove in una chiara prospettiva evoluzionista delle dinamiche sociali. Ma per raggiungere una dialettica all’insegna della pace sociale, l’imprenditore deve mutare, assumendo funzioni fino a quel momento largamente estranee nella realtà produttiva italiana.

Einaudi ha un’idea alta di questa professione: le società sono tanto più dinamiche e aperte all’innovazione quanto più l’imprenditore opera in modo libero e intraprendente. Il suo pensiero sugli imprenditori si evidenzia in particolare come inviato dei giornali. Segue da vicino 1o sciopero a Biella del 1897, conversa con gli imprenditori, in buona parte ex operai. Ne trae la convinzione che la condizione degli industriali è precaria, soggetta a sbalzi e crisi continue. Inoltre, nota che non vi è chiara distinzione di ruoli fra datore di lavoro e operaio. Eppure, è convinto che imprenditore deve evitare di governare il conflitto sindacale con la forza. Infatti, all’ interno delle fabbriche i contrasti sono di natura endemica e non patologica: pertanto l’imprenditore, oltre a essere un attore economico, deve rivestirsi di un ruolo sociale. Da qui l’esigenza dell’imprenditore di andare incontro, per quanto possibile, alle rivendicazioni degli operai, i quali sono una parte insostituibile del profitto aziendale.

La fragilità degli imprenditori. In generale, lo si è già accennato, nell’Italia fra fine Ottocento e inizi Novecento gli imprenditori sono fragili. Reagiscono in modo spaventato in risposta agli scioperi che mettono in crisi la produzione. Einaudi comprende questi comportamenti, li analizza con attenzione. Eppure non condivide simili timori. Critica gli industriali che si limitano a chiedere sussidi, incentivi e politiche doganali per salvaguardare i propri interessi. Condanna “la serra calda dei sussidi di Stato”, a industrie che la concorrenza spazzerebbe via, “e giustamente spazzerebbe – Egli rileva nel 1 911 – nell’interesse generale del Paese”.

Stato e imprenditori. In relazione allo Stato, poi, i giudizi sono nettamente più severi. In primo luogo perché ostacola la crescita della classe industriale. È un tema caro a Einaudi, che torna con assiduità nelle sue riflessioni. Lo Stato gli appare appesantito dall’intrecciarsi di interessi particolari, che condizionano la politica economica. In questo scenario, l’incipiente borghesia imprenditoriale piemontese e lombarda, ma anche alcune individualità sparse nel Paese dotate di coraggio nell’intraprendere nuove attività produttive, compiono «miracoli sotto una cappa di piombo tributaria, quale forse non esiste in nessun altro paese d’Europa». In anni successivi dirà che «tanti sono socialisti senza saperlo», alludendo a comportamenti liberali solo di facciata, che rivelano una mentalità accentratrice e pianificatrice.

Gli imprenditori e l’azione collettiva. È dunque necessario fare un balzo in avanti che si può ottenere solo se gli imprenditori agiscono su un piano collettivo. Insomma, occorre utilizzare i medesimi strumenti di cui gli operai si servono nel rappresentare i loro interessi. Se gli operai si coalizzano in leghe acquisendo maggiore peso contrattuale nei negozianti sindacali, pure gli imprenditori devono unirsi in leghe. Si tratta di un cammino complesso, soprattutto perché si è costantemente tentati ad assumere comportamenti aggressivi, punitivi. Sono, però, battaglie di corto respiro: è necessario sperimentare, sull’esempio della Gran Bretagna, la contrattazione permanente per stabilire di comune accordo i salari, le ore di lavoro, i regolamenti di fabbrica. Se si segue questo percorso, i vantaggi sono immediati: di fronte a imprenditori organizzati in associazioni di rappresentanza, gli operai si mostreranno meno propensi a proclamare uno sciopero, consci di negoziare con un fronte unitario.

La lega degli industriali di Torino. Si tratta di scenari – è bene ribadirlo – che nel contesto italiano sono ancora lontani: il progetto è allora ambizioso, riguarda in primo luogo gli uomini illuminati di ambedue le parti, espressione delle forze nuove dell’economia, impegnati a costruire un Paese moderno. Un segnale positivo per Einaudi è la costituzione nell’estate del 1906 della Lega che riunisce alcune ditte industriali di Torino. Ma non è sufficiente: bisogna agire coinvolgendo altri soggetti imprenditoriali che individuano nella contrattazione sindacale il fondamentale obiettivo della pace sociale.

  1. Einaudi e la guerra

Con la Prima guerra mondiale il quadro fino e ora delineato muta in modo sostanziale. Einaudi è preoccupato per l’Europa. Fin dall’inizio il conflitto gli appare come una lotta fra Inghilterra e Germania per il primato economico sul continente. Eppure è persuaso che le classi produttive più colte inglesi e tedesche – si tratta comunque di una minoranza – sono consapevoli di non ottenere nulla dalla distruzione delle economie rivali. È convinto che la guerra determinerà la rottura dei meccanismi informali su cui si basano le libere economie, provocando danni per tutti i Paesi belligeranti. Su questo aspetto Einaudi mostra lungimiranza: al termine della guerra l’Europa è nel complesso sconfitta e la stessa categoria dell’eurocentrismo subisce un duro colpo.

L’Italia e la guerra. Quando nel giugno del 1915 l’Italia interviene nel conflitto, Einaudi è inquieto per le cadute negative che si avranno per l’economia del Paese. Ribadisce che nulla è più alieno «dalla mentalità economica quanto voler considerare ottimisticamente la guerra come una operazione conveniente e consigliabile dal punto di vista economico». Le guerre mutano geneticamente le funzioni dello Stato, lo rendono rapace e insaziabile nell’imporre nuovi tributi per coprire le crescenti spese militari che impoveriscono la popolazione.

La mutazione genetica dello Stato. Nel contesto bellico, allora, la pace sociale è assicurata dall’alimentare strumentalmente grandi illusioni fra le masse, incapaci di percepire i danni creati dall’inflazione. Si perde così di vista la finalità priorità di perseguire l’elevazione morale dei lavoratori, cercando di ottenere facile consenso attraverso la mistificazione della realtà. A tal proposito, Einaudi richiama gli economisti alla loro originaria vocazione, quella cioè “di dire, quando i politici cercano in ogni modo di calmare, di acquietare la dura realtà”. Perciò la loro missione, se non procaccia popolarità, è nobile e necessaria».

La missione dell’economista. Fra le principali criticità, di cui l’economista deve occuparsi è di impedire che operai e industriali diventino dipendenti statali. Per questo motivo Einaudi non è affatto attratto dal modello di organizzazione del lavoro tedesco, giudicandolo centralizzato e regolarizzato. Per Einaudi, invece, anche durante le fasi terribili della guerra, è irrinunciabile il principio secondo cui innalzamento della produzione lo si ottiene solo attraverso l’azione collettiva.

I problemi del dopoguerra. Pochi mesi prima che la guerra finalmente finisca, Einaudi di affronta i problemi che si prospettano nella fase immediatamente successiva. Li elenca in modo schematico: è necessario

  • assicurare ai lavoratori di conservare il proprio risparmio;
  • avere l’opportunità di impiegare liberamente il proprio talento;
  • garantire sicurezza al lavoro e al capitale.

È convinto che il ripristino della legislazione sociale, accattonata durante le vicende belliche senza particolari proteste, diverrà il tema dominante delle organizzazioni operaie. Ed è anche convinto che sarà inevitabile una fase di grande instabilità. In effetti il repentino precipitare d.gl, eventi, con l’occupazione delle fabbriche nel biennio rosso 1919-1920, rappresenta l’allontanamento di Einaudi dal mito dello spontaneismo nelle relazioni fra le parti sociali. Inoltre, Einaudi è persuaso che dalla guerra è emerso un quadro di forte interdipendenza fatto “da mille invisibili e infrangibili fili”, che ha definitivamente internazionalizzato il mondo del capitale e del lavoro.

  1. Le banche

Avviandomi a1la conclusione, vorrei commentare l’attenzione che Einaudi ha per le vicende del mondo bancario nel primo dopoguerra. In particolare, analizza l’accordo promosso da Francesco Saverio Nitti nel giugno del 1918 in cui si prevede che la Banca Commerciale, il Credito Italiano, la Banca Italiana di Sconto e il Banco di Roma coordinino e disciplinino le loro attività durante la fase finale della guerra e nei due anni successivi alla fine del conflitto. I1 patto, osserva Einaudi, “può diventare il fatto più importante da lunghi anni accaduto nel campo bancario e industriale italiano”. Infatti, rappresenta la costituzione di una vera associazione fra banchieri italiani. Non vi è dubbio, sostiene Einaudi, che tale associazione tra banchieri è utile, in virtù di simili esperienze francesi e inglesi. Su questi aspetti, la valutazione è dunque positiva: «L’intesa promossa dal ministro del Tesoro deve essere lodata». Ma il giudizio è più complesso: come già per le relazioni sindacali tra operai e industriali, per Einaudi – «in ossequio alla verità e al bene pubblico» – l’intervento dello Stato gli sembra invadente. A suo giudizio nel comunicato ministeriale ricorrono spesso parole come accordi, coordinamento, disciplina: «Si parla persino di cartello» – annota. Sono termini che pregiudicano la libera concorrenza. Il timore allora è quello di sempre esplicitato in questo caso da una domanda: «Il mezzo adottato è idoneo a raggiungere davvero fini di utilità nazionale?».

  1. Conclusioni

Cambiano gli ambiti tematici, non si ragiona più di operai e industriali ma di banche, che in questa fase appena affiorano, ma che come è noto diventeranno nei decenni successivi uno scenario di grande interesse nelle riflessioni di Einaudi. Eppure la logica è la stessa: infatti, nonostante il mutamento di orizzonti, la prima stagione di Einaudi che qui si è sinteticamente delineata sarà costitutiva anche per le fasi successive. Concetti chiave come:

  • la libera contrattazione delle parti;
  • il ruolo dello Stato come regolatore e non fattore della produzione;
  • il rispetto per la dignità del lavoro qualunque sia la mansione svolta;

risulteranno principi irrinunciabili.

In definitiva, sono questi gli elementi dt forza del suo pensiero, che non si svolge in compartimenti stagni e autoreferenziali, ma fonde intuizioni e ragionamenti in campi diversi, stimolati dalla convinzione che l’economia è reale quando al centro vi sono gli uomini, le loro scelte, la capacità di relazionarsi e integrarsi in uno spirito di totale libertà.